31 agosto 2018. “La società moderna tende ad una configurazione estremamente complicata che gravita su un centro vuoto ed è in questo centro vuoto che si addensano tutti i poteri e i valori”. Oltre quarant’anni fa (agosto 1974) Italo Calvino individuava lucidamente uno dei nuclei critici della democrazia contemporanea. Anticipando nella distanza tra il decidere e il fare, tra la deliberazione e la sua applicazione, un possibile elemento patologico del sistema occidentale, in generale, e italiano, in particolare. Uno spazio cresciuto a dismisura, a cavallo tra i due secoli, in cui vari attori (burocrazia, interessi particolari tra gli altri) hanno esercitato, e tuttora esercitano, un ruolo esorbitante. Con il risultato di far girare a vuoto, sempre più spesso, il potere. In una situazione di stallo che registra nella continua legiferazione una progressiva perdita di presa sulla realtà e nella personalizzazione dei programmi politici e nella sostituzione dell’azione alla sua narrazione – il famigerato storytelling – una risposta fallimentare alla necessità di una visione strategica dei problemi.
Nel microcosmo dei trasporti il perverso meccanismo del potere politico che abdica ai micropoteri dovrebbe essere già abbastanza chiaro per chi ha seguito la defatigante vicenda dei dragaggi nel porto di Napoli, peraltro in replica ancora oggi, e con le medesime modalità, nel porto di Salerno. Un percorso accidentato tra autorizzazioni, prescrizioni, verifiche sulle prescrizioni già effettuate: un balletto di rimandi in cui ogni ufficio, ente, ministero richiede l’obolo della sua competenza parziale e compartimentata, rigorosamente esente dalla responsabilità sull’esito finale dell’iter, con buona pace per l’interesse pubblico. Gioco dell’oca, quando non processo kafkiano, che secondo forme proprie (infinite le incarnazioni dell’universo burocratico), si sta ripresentando anche con l’istituzione delle ZES.
Pietro Spirito, in un intervento su Repubblica, denunciando “l’infernale macchina amministrativa che strangola tutti i tentativi di modificare la cancrena burocratica nella quale siamo paralizzati ormai da decenni”, tratteggia, di fatto, la microfisica del (non)potere italiano. Mettendo in fila tutti i passaggi – dal decreto del governo che prevede l’istituzione delle Zone economiche speciali (giugno 2017) alla conversione in legge (agosto 2017) che prescrive, a sua volta, tre decreti del presidente del consiglio, emanati di concerto con altri ministeri, e una serie di deliberazioni delle giunte regionali – arriva all’incaglio di questi giorni. Perché, ad un certo punto, la procedura, che per gli standard italiani viaggiava anche ad un ritmo abbastanza sostenuto, si è arrestata su un binario morto? Dopo i due decreti di definizione dello strumento e di istituzione delle ZES della Campania e della Calabria (febbraio e maggio 2017) si è effettivamente persa traccia della norma relativa alle semplificazioni amministrative e burocratiche di cui potranno godere le aziende che si insediano nelle ZES. Così come nessun segnale arriva da Presidenza del Consiglio e MIT sulla nomina dei rispettivi rappresentanti in seno al Comitato di indirizzo che dovrebbe coordinare lo sviluppo delle zone. Distrazione da altre priorità? Interdizione di qualche interesse di parte?
Fatto sta che rispetto al risultato paradossale che vede uno strumento di sburocratizzazione applicato in tutto il mondo bloccato proprio dalla burocrazia che dovrebbe sconfiggere, è forse arrivato il momento di una riflessione più approfondita sui vuoti del potere. “Per gravitare su un centro pneumatico ci vorrebbe una società più solida,” spiegava sempre Calvino. Ma forse non è abbastanza.
Gio.Gra.
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