Aniello Cuomo |
1.Premessa
Il 30
luglio di quest’anno è stato stipulato dai sindacati maggiormente
rappresentativi dei marittimi e degli armatori un accordo sindacale per
favorire l’imbarco degli allievi, che è stato salutato con enfasi dalle categorie
interessate e dalla stampa perché avrebbe favorito l’ingresso dei giovani
italiani nelle professioni del mare.
Le
disposizioni più significative dell’accordo (a cui si fa rinvio) hanno previsto che l’imbarco degli allievi avvenga
in soprannumero rispetto alle tabelle minime di sicurezza; sia connesso ad un percorso formativo di
addestramento di durata e contenuto conformi alla normativa nazionale ed
internazionale in materia di formazione e abilitazioni professionali marittime,
attuato sotto la responsabilità dell’ufficiale per l’addestramento di Compagnia
e per l’addestramento a bordo, designato dall’armatore; che le ore giornaliere
di attività a bordo non superino le otto ore per sette giorni a settimana; che
i doveri ed i compiti a cui sia sottoposto l’allievo durante l’addestramento
a bordo siano registrate nel quaderno di addestramento; che l’allievo percepisca
per l’attività svolta a bordo un’indennità minima mensile onnicomprensiva,
espressamente determinata. Nell’accordo,
viene previsto altresì che “ Ferma restando, ai sensi della normativa nazionale
vigente, la natura prettamente formativa e di addestramento tipica
dell’attività svolta a bordo dall’Allievo, a tale figura, che comunque non
rientra nella definizione di lavoratore marittimo di cui all’art, 2, comma 1,
lett. e) del D.lgs. 71/2015, in quanto non in possesso di un certificato di competenza o di un certificato di addestramento,
verranno comunque estese le tutele
previdenziali, assistenziali e assicurative previste per i lavoratori
marittimi.”
Nell’accordo,
inoltre, al fine di favorire l’inserimento nel mondo del lavoro dell’allievo
ufficiale che ha conseguito l’abilitazione, viene prevista la possibilità di
imbarcarlo come terzo ufficiale junior, con riconoscimento, nei primi dodici
mesi di imbarco, di una retribuzione di ingresso composta dal minimo
contrattuale e da tutti gli altri elementi retributivi previsti dal contratto
collettivo per la qualifica di terzo ufficiale, ridotti, però, del venti per cento.
Nonostante
l’enfasi dimostrata dai sindacati e dalla stampa, non sono mancate polemiche e
perplessità in merito a tale accordo, che secondo alcuni addetti ai lavori si
porrebbe in palese contrasto con la
MLC 2006 (Maritime Labour
Convention), la convenzione
internazionale sul lavoro marittimo adottata
a Ginevra il 23 febbraio 2006.
I
portatori delle censure più severe sono pervenuti alla conclusione che le competenti autorità marittime non dovessero
accettare le convenzioni di arruolamento che
richiamassero il contenuto
normativo ed obbligatorio dell’accordo, poiché ritenuto in evidente contrasto
con le norme della MLC, che le stesse autorità marittime sono tenute a far
applicare.
In
sostanza l’accordo sindacale si porrebbe in contrasto con la MLC 2006, perché favorirebbe una disparità di
trattamento retributivo nei confronti dei marittimi destinatari dello stesso,
per i seguenti motivi: a) l’indennità mensile onnicomprensiva, così definita
per rimarcare che l’allievo non sarebbe lavoratore marittimo, è decisamente inferiore al salario minimo
riconosciuto dai precedenti accordi
sindacali agli allievi; il valore economico delle indennità mensili
onnicomprensive previste dall’accordo sarebbe
inferiore ai parametri minimi di
sufficienza e proporzionalità della retribuzione; gli ufficiali alla loro prima
esperienza di imbarco in tale qualifica ricevono una retribuzione decisamente
inferiore a quella prevista dagli accordi sindacali precedenti.
Dopo
aver dimostrato che l’autorità marittima chiamata a ricevere il contratto di
arruolamento non è tenuta in alcun
modo a
entrare nel merito dell’accordo sindacale, se ne valuterà il contenuto.
2. La ricezione del contratto di arruolamento
da parte dell’Autorità marittima
Per le navi di stazza lorda superiori a cinque
tonneIlate, il contratto di arruolamento deve, a pena di nullità, essere fatto
per atto pubblico, ricevuto nella Repubblica, dall’autorità marittima, e
all’estero, dall’autorità consolare ed annotato sul ruolo di equipaggio o sulla
licenza. Prima di essere sottoscritto, il contratto deve essere letto e
spiegato al marittimo è
ciò deve
constare dal contratto stesso. Se stipulato all’estero, ove manchi l’autorità
consolare, il contratto deve, a pena di nullità, essere stipulato per iscritto,
alla presenza di due testimoni, che vi appongono la propria sottoscrizione. Il
contratto, conservato tra i documenti di bordo, è convalidato dall’autorità
marittima o consolare nel primo porto in cui abbia sede una di tali autorità
(cfr. artt. 328 e 329 del codice della navigazione; artt. 357 e 358 del
regolamento al codice della navigazione,
parte marittima).
Il
contratto di arruolamento è, quindi, un
negozio formale e solenne, stipulato in forma pubblica amministrativa,
particolare formalità prevista, per i contratti in cui è parte la pubblica
amministrazione, dall’ art. 16 della legge di contabilità dello Stato (Regio
Decreto 18 novembre 1923, N. 2440 “Nuove disposizioni sull'amministrazione del
patrimonio e sulla contabilità dello Stato”); dall’art. 11, comma 13, del
decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 “Codice dei contratti pubblici relativi
a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e
2004/18/CE”[1];
nonché regolamentata dalle pertinenti norme del
regolamento di contabilità dello Stato (Regio Decreto 23 maggio 1924, n.
827).
Nella forma pubblica amministrativa, al notaio
si sostituisce un pubblico funzionario a ciò delegato che, nel ricevere tali
atti, è tenuto ad osservare le norme prescritte dalla legge notarile, in quanto
applicabili (cfr. art. 96 del regolamento di contabilità dello Stato, RD
827/1924).
Il contratto
di arruolamento, pur stipulato in forma pubblica amministrativa,[2] è un contratto diverso da
quelli previsti dalle norme di contabilità pubblica e dal codice dei contratti,
per cui residuano dubbi sulla piena identità di funzioni tra l’ufficiale rogante,
previsto dalle norme di contabilità dello Stato, ed il competente ufficiale o funzionario
dell’autorità marittima o consolare che riceve il contratto di
arruolamento[3].
La distinzione appare importante, perché se si ammette che chi riceve l’atto assume
in pieno le medesime funzioni dell’ufficiale rogante, allora egli è tenuto
anche al rispetto delle disposizioni della legge notarile (legge 16 febbraio 1913,
n. 89), ed in particolare delle disposizioni contenute negli artt. 28, 47 e 49,
nella parte in cui sono applicabili.
Preliminarmente
si esamineranno gli artt. 47 e 49, la cui applicazione non sembra possa destare
particolari preoccupazione neanche per il pubblico funzionario chiamato a
ricevere il contratto di arruolamento;
successivamente, essendone l’applicazione più impegnativa, l’art. 28,che
al primo comma, n.1), prevede il controllo di liceità dell’atto.[4]
L’art.
47 pone in capo al notaio il compito di
indagare la volontà delle parti per poi trasferirla in un atto che risponda
pienamente a quella che è la loro volontà; l’art. 49, invece, all’accertamento
delle identità delle parti. Nel primo caso, considerato che il contratto di
arruolamento è un contratto tipico, il cui contenuto è previsto dalla legge,
non mi sembra che sia prevista alcuna particolare attività da parte di chi lo
riceve; nel secondo caso, invece, non mi sembra che l’accertamento
dell’identità delle parti possa essere particolarmente complessa.
Ciò che
merita maggiore attenzione è il controllo di liceità dell’atto a cui è tenuto
il notaio o l’ufficiale rogante secondo
le disposizioni dell’art. 28, che prevedono la ricusazione dell’atto quando
esso sia espressamente proibito dalla
legge, o manifestamente contrario al buon costume o all’ordine pubblico. Non è
qui il caso di ripercorrere le tappe che hanno caratterizzato l’evoluzione
della dottrina e della giurisprudenza, basta solo dire che negli ultimi anni,
con plurime decisioni, la Corte di Cassazione ha fatto concreta applicazione
del principio della necessaria inequivocità della nullità, affermando che “Il
divieto per il notaio di ricevere atti nulli sussiste solo quando la nullità
dell'atto sia inequivoca ed indiscutibile, dovendosi intendere l'avverbio
espressamente, che nell'art. 28 della legge 16 febbraio 1913, n. 89 qualifica
la categoria degli atti proibiti dalla legge, come inequivocamente; pertanto,
tale divieto si riferisce a contrasti dell'atto con la legge che risultino in
termini inequivoci…” (Cass. 12 novembre 2013, n. 25408; Cass. 11 marzo 2011, n.
5913; Cass. 20 luglio 2011, n. 15892; Cass. 13 ottobre 2011, n. 21202).
D’altronde
anche l’origine e la ratio della norma[5] impongono di ritenere che
al notaio non possono certo addossarsi compiti ermeneutici (con le connesse
responsabilità) in presenza di incertezze interpretative oggettive. Invece
l'irricevibilità dell'atto si giustifica quando il divieto possa desumersi in
via del tutto pacifica ed incontrastata da un orientamento interpretativo ormai
consolidato sul punto.[6]
Da
quanto fin qui esposto risulta veramente arduo comprendere in base a quale
presupposto logico o normativo si possa ricusare un contratto di arruolamento
per la presunta sussistenza di fantomatici
vizi giuridici dell’accordo sindacale a cui esso faccia
riferimento.
3. L’ allievo è un
lavoratore marittimo?
L’oziosa querelle, in merito all’appartenenza
o meno degli allievi alla categoria dei lavoratori marittimi, nasce dalle
definizioni contenute nell’art. 2 del
decreto legislativo 12 maggio 2015, n.71, attuativo della direttiva 2012/35/UE,
che ha modificato la direttiva 2008/106/CE, concernente i requisiti minimi di
formazione della gente di mare.
L’art,
2, comma 1, lett. e) definisce così il
lavoratore marittimo:
“lavoratore
marittimo: ogni persona che svolge, a qualsiasi titolo, servizio o attivita'
lavorativa a bordo di una nave che ha ricevuto una formazione ed è in possesso
di un certificato di competenza o di un certificato di addestramento o di una
prova documentale;”
Il
medesimo articolo, all’art. 2, comma 1, lett. l) dà invece la seguente definizione di allievo ufficiale
di coperta:
“allievo ufficiale di coperta: una persona che
sta effettuando l'addestramento per diventare ufficiale di coperta, designata
come tale dalla legge nazionale o dai regolamenti;”
L’allievo
ufficiale di macchina, con le dovute differenze, è definito allo stesso modo
dall’art. 2, comma 1, lett. p).
Le
differenti definizioni di allievo e lavoratore marittimo sarebbero all’origine
dell’inciso contenuto all’interno dell’accordo sindacale, secondo il quale
l’allievo non sarebbe un lavoratore marittimo.
Secondo
coloro che criticano aspramente l’accordo, questa differenziazione,
contrastante con tutte le altre norme che si riferiscono alla gente di mare ed
ai lavoratori del mare ed in particolare con la MLC 2006, sarebbe all’origine
del trattamento retributivo, ritenuto discriminante, riservato all’allievo.
La
querelle, come già anticipato, appare oziosa ed inutile ai nostri fini ,per il
semplice motivo che le definizioni
contenute nell’art. 2 del citato decreto legislativo non hanno una valenza
giuridica di portata generale, ma limitata all’applicazione delle norme in esso
contenute; se così non fosse, allora sì potrebbero confliggere con gli altri testi normativi, di portata più ampia,
secondo i quali, qualsiasi persona che svolga attività lavorativa a bordo è
lavoratore marittimo. Con tale decreto, emanato a seguito di procedura di
infrazione da parte dell’Italia, si considera lavoratore marittimo colui il
quale svolge sì lavoro a bordo ma che è addestrato e certificato conformemente
agli standard di addestramento ed alle norme per la tenuta della guardia,
previsti dalla STCW 2010.
Nel
caso specifico dell’allievo è indubbio che sia un lavoratore subordinato che
svolga la sua attività a bordo, viceversa non occorrerebbe la convenzione di
arruolamento che è il tipico contratto di lavoro della gente di mare, ma egli non un lavoratore formato. E’ in sostanza un
lavoratore che per ottenere una particolare qualificazione professionale necessita di un ulteriore apprendimento
tecnico professionale attraverso una formazione sul lavoro.
Non
a caso, in dottrina, è stato ritenuto che, tra i membri dell’equipaggio, gli
allievi ufficiali sono l’unica categoria
di apprendisti conosciuta e disciplinata, sebbene appaia piuttosto
insolito che nell’ambito del
diritto del lavoro si sia in presenza di
un contratto di tirocinio per una attività qualificabile come impiegatizia[7]. La dottrina richiamata,
risalente agli anni ’60, si poggiava sulle norme che all’epoca regolavano il contratto di apprendistato. Tali
norme, nel corso degli anni, hanno subito sensibili modifiche che hanno portato
alla creazione di varie figure di lavoratori che, in fase di inserimento nel
mondo lavorativo, necessitano di un’appropriata formazione.
Alla
luce dell’attuale normativa in materia
di apprendistato, attuativa del Jobs Act, introdotta col decreto legislativo 15
giugno 2015, n. 81, il contratto di
arruolamento degli allievi così come configurato dall’accordo sindacale in
esame, parrebbe assumere le caratteristiche di un contratto di “apprendistato
professionalizzante” ovvero come veniva definito dall’abrogato decreto
legislativo 167/2011, “ apprendistato professionalizzante o contratto di
mestiere”. Pertanto, ogni questione in merito alla definizione giuridica della
figura dell’allievo, finalizzata a dimostrare all’inadeguatezza della
retribuzione a lui riconosciuta, appare superflua.
3. Trattamento economico peggiorativo
rispetto ad un precedente contratto
collettivo.
Il
dibattito sull’ammissibilità nel nostro ordinamento di contratti o accordi
collettivi peggiorativi dei precedenti ha trovato il suo epilogo nel 2007, con
l’intervento della Corte di Cassazione. Da allora ad oggi, l’opinione
consolidata sia in dottrina che in giurisprudenza, è che ”… non può essere messo in discussione il potere del sindacato di
sostituire la precedente disciplina collettiva, anche con esito peggiorativo
per il trattamento economico e normativo di tutti o alcuni lavoratori.” (Corte di Cassazione Sezione civile, lavoro
5/6/2007 n. 13092)
L’integrale
richiamo alla giurisprudenza della Corte sembra il modo migliore per illustrare
i principi in base ai quali essa è
pervenuta a tale ultima conclusione:
“… in
tema di successione di contratti collettivi, il lavoratore non può invocare un
diritto acquisito in forza della precedente contrattazione. Infatti, una cosa è
l'indisponibilità, da parte del sindacato, dei diritti soggettivi perfetti
attribuiti da un determinato contratto collettivo, ed altra è la pretesa, da
parte del lavoratore, di mantenere definitivamente acquisito al suo patrimonio
un diritto nato da una norma collettiva che ormai non esiste più perché
caducata o sostituita da una successiva contrattazione collettiva (ex plurimis,
Cass. n. 4947 del 1991; n. 2155 del 1990; n. 1147 del 1988; n. 9175 del 1987;
n. 5592 del 1986).Ciò perché le disposizioni dei contratti collettivi non si
incorporano nel contenuto dei contratti individuali, dando luogo a diritti
quesiti sottratti al potere dispositivo delle organizzazioni sindacali, ma
operano invece dall'esterno sui singoli rapporti di lavoro, come fonte
eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché,
nell'ipotesi di successione fra contratti collettivi, le precedenti
disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del
trattamento più favorevole (che attiene esclusivamente, ai sensi dell'art. 2077
cod. civ., al rapporto tra contratto collettivo ed individuale), restando la
conservazione di quel trattamento affidato all'autonomia contrattuale delle
parti collettive stipulanti, che possono prevederla con apposita clausola di
salvaguardia.
La
stessa durata di un contratto collettivo rientra tra gli elementi disponibili
da parte dei sindacato, atteso che a questo soggetto è rimessa la valutazione
"collettiva" della persistente corrispondenza della norma
contrattuale agli interessi dei lavoratori associati, e, mutata la situazione
contingente, esso ben può decidere di non conservarne ulteriormente
l'efficacia. Del resto, il nuovo contratto può risultare
"peggiorativo" in alcuni aspetti, ma evidentemente rispetto ad una
situazione preesistente, mentre la nuova disciplina deve ritenersi
corrispondente agli interessi degli associati rispetto alle situazioni
sopravvenute.” (Corte di Cassazione
Sezione civile, lavoro 5/6/2007 n. 13092).
Tale
giurisprudenza si è ancor più consolidata con le più recenti pronunce:
“La disposizione contenuta nell’articolo 2077 del
codice civile, secondo il quale le clausole meno favorevoli previste dal
contratto individuale sono sostituite di diritto da quelle del contratto
collettivo, riguarda unicamente i rapporti tra il contratto individuale e
quello collettivo e non si applica alle disposizioni, anche peggiorative,
introdotte da parte di un successivo contratto collettivo, con l’unico limite
dei diritti quesiti che siano già entrati definitivamente a far parte del
patrimonio individuale del prestatore di lavoro. (Cass. 19 febbraio 2014 n. 3982)
“E'
opinione seguita, oltre che in dottrina anche in giurisprudenza, che alle parti
sociali è consentito, in virtù del principio generale dell'autonomia negoziale
di cui all'art. 1322 cod. civ., prorogare l'efficacia dei contratti collettivi,
modificare, anche in senso peggiorativo, i pregressi inquadramenti e le
pregresse retribuzioni - fermi restando i diritti quesiti dei lavoratori sulla
base della precedente contrattazione collettiva - nonché disporre in ordine
alla prevalenza da attribuire, nella disciplina dei rapporti di lavoro, ad una
clausola del contratto collettivo nazionale o del contratto aziendale, con
possibile concorrenza delle due discipline.”
(Cassazione civile sez. lav., 15 settembre
2014 n. 19396)
Con
questa sentenza la Corte si spinge oltre, ammettendo la reformatio in pejus
anche del contratto aziendale, in virtù del principio secondo il quale Il
concorso tra la disciplina contrattuale collettiva nazionale e quella aziendale
“... va risolto non secondo i principi della gerarchia e della specialità
propria della fonte legislativa, bensì accertando quale sia l'effettiva volontà
delle parti, da desumersi attraverso il coordinamento delle varie disposizioni
della contrattazione collettiva, aventi tutti pari dignità e forza vincolante,
sicché anche i contratti aziendali possono derogare in peius ai contratti
nazionali, senza che osti il disposto dell'art. 2077 c.c., con la sola
salvaguardia dei diritti già definitivamente acquisiti nel patrimonio dei
lavoratori, che non possono pertanto ricevere un trattamento deteriore in
ragione della posteriore normativa contrattuale, di eguale o di diverso livello
(cfr. tra le tante: Cass. 2 aprile 2001 n. 4839, cui adde, Cass. 7 febbraio 2004
n. 2362 e Cass. 18 settembre 2007 n. 19351).” (Cassazione civile sez. lav., 15 settembre 2014 n. 19396).
La giurisprudenza richiamata
è stata ulteriormente confermata qualche mese fa, dalla sentenza della Corte di
Cassazione, sez. Lavoro, 18 giugno – 29 ottobre 2015, n. 22126.
4. Parità di trattamento retributivo a parità
di mansioni
L’attuale,
consolidato e pacifico orientamento
giurisprudenziale della suprema Corte in materia si fonda sull’inesistenza di un diritto
soggettivo alla parità di trattamento retributivo da parte del lavoratore
subordinato, atteso che “… una situazione di disparità è anzi legislativamente
prevista, laddove l'art. 2077 II comma c.c. impone la sostituzione con le norme
collettive delle clausole difformi contenute nei contratti individuali, salvo
che tali clausole siano più favorevoli al lavoratore. Una situazione iniziale
di disparità di trattamento a parità di mansioni non solo non è vietata, ma è
addirittura disciplinata dalla legge, che prevede un allineamento dei contratti
individuali di lavoro alla disciplina collettiva non in tutti i casi, ma solo
in quelli in cui il contratto individuale contenga disposizioni meno favorevoli
per il lavoratore.”(Cassazione Civile, SS.UU. 17 maggio 1996, n.4570). Prima di
tale decisione, i cui principi sono a
tutt’oggi pacifici e consolidati, essendo stati più volte confermati dalla successiva giurisprudenza in
materia, la Corte pur senza mai mettere in discussione l’inesistenza di un
diritto soggettivo alla parità di trattamento, non sempre ha avuto un
orientamento univoco. In una prima fase,
antecedente al 1989, si è ritenuto che
il principio della parità di trattamento non trovasse alcun sostegno
nelle fonti legislative, anche di diritto comunitario e internazionale,
recepite dall'ordinamento italiano e non fosse in particolare deducibile nè
dall'art. 36 della Costituzione (che si limita a fissare il criterio della
proporzionalità e adeguatezza della retribuzione, prescindendo da ogni
comparizione intersoggettiva) nè dall'art. 3 (che stabilisce soltanto
l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, ma non certo nell'ambito dei
rapporti privatistici, quali appunto i rapporti di lavoro privato). Dopo la
sentenza della Corte Costituzionale 9 marzo 1989 n. 103[8], alcune sentenze della
sezione Lavoro, interpretandola nel senso che
essa avesse affermato il principio della parità di trattamento, si
discostavano dalla giurisprudenza precedente ed affermavano la esistenza
cogente di questo principio, mentre altre sentenze, dando una diversa lettura
della sentenza interpretativa di rigetto della Corte delle leggi, mantenevano
ferma la precedente giurisprudenza. La sentenza, come ritenuto dalla prevalente
dottrina, non aveva affermato l’ esistenza di detto principio nell'art. 41
Cost., ma aveva effettuato solo una ricognizione delle disposizioni del
codice civile e dei precetti costituzionali vigenti in materia e non aveva
ritenuto che l'art. 41 della Cost. fosse una norma di diritto positivo che imponesse la
parità di trattamento, ma che la tutela della dignità del lavoratore esclude
che le differenze di trattamento possano essere dovute a mera discrezionalità o
addirittura di arbitrio: "sono tollerabili e possibili disparità e
differenziazioni di trattamento, sempre che siano giustificate e comunque
ragionevoli"; riaffermando che il giudice deve compiere l'accertamento ed
il controllo dell'inquadramento dei lavoratori nelle categorie e nei livelli
retributivi e che egli applica la legge,
la contrattazione, e corregge gli errori di inquadramento.[9]
Comunque
il contrasto giurisprudenziale insorto fu composto dalle Sezioni Unite con le
sentenze 6030, 6031, 6032, 6033 e 6034 del 29 maggio 1993 (cui bisogna
aggiungere la quasi coeva Cass. 1 ottobre 1993 n. 9804) con l'adesione alla
giurisprudenza tradizionale della Corte.
La
giurisprudenza successiva della sezione lavoro si è in parte e con motivazioni
diverse allontanata dalle argomentazioni svolte nelle decisioni delle Sezioni
Unite, giungendo a soluzioni che in alcuni casi potevano apparire contrastanti con quelle sopra
richiamate, per cui per uniformare l’orientamento giurisprudenziale si è resa necessaria una nuova pronuncia a
sezioni unite della Corte di Cassazione,
concretizzatasi nella sentenza n. 4570, in data
17 maggio 1996, richiamata in esordio.
La
giurisprudenza successiva della Corte ha riaffermato i principi esposti dalla
decisione n. 4570 del 1996, condividendone le argomentazioni (Cass., 5 ottobre
1998 n. 9867; 24 ottobre 1998 n. 10598; 7 gennaio 1999 n. 62; 25 settembre 1999
n. 10581; 5 maggio 2000 n. 5623; 19 giugno 2001 n. 8296; 8 gennaio 2002 n. 132;
2 dicembre 2003, n.18418 ).
Alla
luce della giurisprudenza esaminata si può quindi concludere che non esiste un
diritto soggettivo alla parità di trattamento retributivo da parte del
lavoratore subordinato, atteso che “… una situazione di disparità è anzi
legislativamente prevista, laddove l'art. 2077 II comma c.c. impone la
sostituzione con le norme collettive delle clausole difformi contenute nei
contratti individuali, salvo che tali clausole siano più favorevoli al
lavoratore. Una situazione iniziale di disparità di trattamento a parità di
mansioni non solo non è vietata, ma è addirittura disciplinata dalla legge, che
prevede un allineamento dei contratti individuali di lavoro alla disciplina
collettiva non in tutti i casi, ma solo in quelli in cui il contratto
individuale contenga disposizioni meno favorevoli per il
lavoratore.”(Cassazione Civile, SS.UU. 17 maggio 1996, n.4570).
5. La disparità di trattamento discriminatoria.
Il
principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, contenuto
nell’art. 3 della Costituzione, costituisce uno dei principi fondamentali del
nostro ordinamento ed il presupposto logico su cui si deve fondare ogni
ordinamento democratico. In base al principio
di uguaglianza, la legge deve regolare
in maniera uguale situazioni uguali ed in al maniera razionalmente diversa
situazioni diverse, con la conseguenza che la disparità di trattamento trova
giustificazione nella diversità delle situazioni disciplinate: «La
giurisprudenza di questa Corte [Costituzionale] è costante nel senso che il
principio di eguaglianza è violato anche quando la legge, senza un ragionevole
motivo, faccia un trattamento diverso ai cittadini che si trovino in eguali
situazioni. » (Corte Costituzionale sent. n. 15 del 1960), poiché “l'art. 3
Cost., [va] inteso come divieto di disparità di trattamento di situazioni
simili e come esclusione di discriminazioni irragionevoli” (Corte
Costituzionale sent. n. 96 del 1980).
Secondo
il costante orientamento della Corte, si ha violazione dell’art. 3 della
Costituzione quando situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in
modo ingiustificatamente diverso, mentre non si manifesta tale contrasto quando
alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non sostanzialmente
identiche, essendo insindacabile in tali casi la discrezionalità del
legislatore ( Corte Costituzionale sent. n. 340 del 2004).
Le
differenze di trattamento retributivo possono ritenersi illecite, quindi,
soltanto se violano il divieto di
discriminazione, così come individuato e definito dal diritto positivo, considerato
che non si riscontrano nella
Costituzione e nella legislazione ordinaria norme imperative, che accolgano la
regola della parità di trattamento economico e normativo, con particolare
riguardo ai lavoratori subordinati[10], e che costituisce ius
receptum in seno alla giurisprudenza della Corte [di Cassazione] l'affermazione
dell'inesistenza, nel nostro ordinamento, di un principio che imponga al datore
di lavoro, nell'ambito di rapporti privatistici, di garantire parità di
retribuzione e/o di inquadramento a tutti i lavoratori svolgenti le ato medesime
mansioni, atteso che l'art. 36 Cost., si limita a stabilire il principio di
sufficienza e adeguatezza della retribuzione prescindendo da ogni comparazione
intersoggettiva a che l'art. 3 Cost., impone l'uguaglianza dei cittadini di
fronte alla legge, non anche nei rapporti interprivati[11].
Nel
nostro ordinamento, le norme relative al divieto di discriminazione si
rinvengono nei decreti legislativi
215/2003; 216/2003; 145/2005, i quali recepiscono rispettivamente le seguenti
direttive comunitarie: “Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parita' di
trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine
etnica”; “Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parita' di trattamento
in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”; “Attuazione della
direttiva 2002/73/CE in materia di parita' di trattamento tra gli uomini e le
donne, per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla
promozione professionale e le condizioni di lavoro”.
La
portata dei tre decreti legislativi è sostanzialmente identica, in quanto tendono
ad attuare la parità' di trattamento tra le
persone indipendentemente: a) dalla razza e dall'origine etnica; b) dalla
religione dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall'età' e
dall'orientamento sessuale; c) dalla differenza tra uomo e donna. Il decreto
145/2005, contenente norme in materia di
parità' di trattamento tra gli uomini e le donne, per quanto riguarda l'accesso
al lavoro, alla formazione e alla promozione professionale e le condizioni di
lavoro, è integrativo di norme già esistenti. In tale ultimo decreto vengono
considerati atti discriminatori anche le molestie sessuali.
Tutti e tre
i decreti contengono la nozione del principio di parità di trattamento e del divieto di discriminazione diretta ed indiretta, individuandone altresì,
l’ambito di applicazione.
Le norme
contenute nei decreti consentono, quindi di definire principio di parità di
trattamento l'assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa
della razza o dell’origine etnica, della religione, delle convinzioni
personali, degli handicap, dell'età' del sesso o dell'orientamento sessuale. I
concetti di discriminazione diretta ed in diretta sono anch’essi definiti dalle
norme ed anche chiaramente, ma la definizione che segue appare più esaustiva: “La discriminazione diretta si verifica con
qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento che
produca un effetto pregiudizievole, di tipo discriminatorio e comunque con
l’attribuzione di un trattamento irragionevolmente meno favorevole ad un
soggetto o ad una categoria di soggetti rispetto ad altri che si trovano in
situazione analoga…; si ha discriminazione indiretta, invece, quando una
disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento
apparentemente neutri mettono o possono mettere un individuo o una categoria di
persone in una posizione di particolare svantaggio rispetto agli altri
individui o categorie di persone. Si tratta di una forma più subdola di
discriminazione, che, per esempio, può verificarsi se: 1) un datore di lavoro
decidesse di escludere candidati che vivono in una specifica area della città,
che è quella dove vivono molti Rom, sicché la selezione operata dal potenziale
datore di lavoro sarebbe dunque svantaggiosa per gli eventuali candidati Rom,
che, di conseguenza, verrebbero discriminati in maniera indiretta; 2) se in un
pubblico concorso per un lavoro ove siano richiesti particolari requisiti di
prestanza fisica (come accade in campo militare) fossero previsti dei requisiti
di altezza unici per tutti i candidati, senza tenere conto che l’altezza media
delle donne è diversa da quella degli uomini.”[12]
Si badi bene
che nei citati testi normativi sono previste comunque deroghe al principio di
parità di trattamento, quando le
differenze di trattamento, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano
giustificate oggettivamente da finalità' legittime perseguite attraverso mezzi
appropriati e necessari.
Da quanto
finora esposto non sembra possano nutrirsi dubbi in merito a quei casi di disparità di trattamento retributivo che
possano integrare fattispecie illecite, rinvenibili nelle norme sopra esaminate
e che sono il portato di principi contenuti
nell’ordinamento giuridico sovranazionale,[13]
a cui la stessa Convenzione MLC2006 fa riferimento.[14]
6. Retribuzione proporzionata e sufficiente
La
retribuzione è il compenso economico che
il datore di lavoro è tenuto a
corrispondere in maniera continuativa ed obbligatoria al prestatore di lavoro
subordinato. Essa costituisce l’obbligo principale del datore di lavoro a
fronte della prestazione fornita dal lavoratore e va a connotare il rapporto di
lavoro come un contratto oneroso di scambio (o a prestazioni corrispettive)[15].
Considerato che la retribuzione è caratterizzata da una struttura composita che
promana da fonti legali o contrattuali esterni al contratto di lavoro
individuale, non tutti i compensi economici che il datore di lavoro è tenuto a
corrispondere al prestatore di lavoro hanno natura retributiva.
L’individuazione delle voci di natura retributiva che compongono la retribuzione è devoluta, di regola e con le
sole eccezioni espressamente risultanti dalla legge, alla contrattazione collettiva e, nel
rispetto di questa, al contratto individuale, non esistendo nel nostro
ordinamento un principio generale e
inderogabile di omnicomprensività , sancito, invece, dal legislatore solo con
riguardo ad alcuni emolumenti.[16]
Pertanto, con riferimento al caso specifico del modulo contrattuale previsto
per l’allievo ufficiale dall’accordo sindacale del 30 luglio 2015, è
irrilevante che il compenso economico per questi previsto sia definito non
salario, ma indennità, perché se è vero
che il termine indennità viene comunemente
inteso come attribuzione patrimoniale dell’imprenditore al
prestatore di lavoro, non avente carattere retributivo, è altrettanto vero che
è una denominazione che talvolta viene data all’intera retribuzione[17]; nel
caso specifico, il termine non poteva sembrare più appropriato, considerato che
trattasi di un contratto di lavoro a causa mista, in quanto alla prestazione lavorativa,
si aggiunge l’attività formativa.
La
retribuzione, secondo le disposizioni
contenute nell’ art.36 della Costituzione deve essere proporzionata alla
quantità e qualità del lavoro ed in ogni
caso sufficiente ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia una esistenza
libera e dignitosa.
La
norma dell’art. 36 della Costituzione, pur avendo un contenuto esclusivamente programmatico, in assenza
dell’intervento del legislatore ordinario, ha assunto negli anni un contenuto
di immediata applicabilità per via giudiziale, per effetto degli incisivi
interventi dei giudici del lavoro, i quali già dagli anni cinquanta hanno individuato nell’art. 36 il fondamento
positivo per la dichiarazione di nullità delle pattuizioni individuali
deteriori rispetto agli standard retributivi negoziati in sede sindacale, con
la conseguente rideterminazione giudiziale, e 2099 del codice civile, della retribuzione dovuta al lavoratore.[18]
L’orientamento
giurisprudenziale tuttora prevalente, si concreta nell’affermazione secondo cui
la retribuzione del lavoro subordinato in un determinato settore deve essere
determinata assumendosi come parametro lo standard minimo risultante dal
contratto collettivo nazionale stipulato per lo stesso settore; e quando non
possa farsi riferimento ad alcun contratto collettivo stipulato per il settore
specifico, deve farsi riferimento al contratto stipulato per un settore affine.[19]
Nel determinare la
retribuzione proporzionata e sufficiente, ai sensi dell'art. 36 cost., il
giudice di merito, assunti i minimi salariali del contratto collettivo
nazionale quali parametro di riferimento, può legittimamente, secondo una
valutazione non censurabile in Cassazione se non sotto il profilo della
logicità e congruità della motivazione, discostarsi da essi in senso riduttivo,
tenuto conto di una pluralità di elementi, quali la quantità e qualità del
lavoro prestato, le condizioni personali familiari del lavoratore, le mercedi
praticate nella zona, il carattere artigianale e le dimensioni dell'azienda
(nella specie, sostiene la S.C. che il ricorrente non avrebbe posto in adeguato
rilievo le ragioni per cui l'indagine sulla entità delle "retribuzioni
correnti nella zona" renderebbe illegittima la riduzione del venti per
cento dei minimi salariali nazionali operata dal giudice di merito).(Cass. civ., sez. lavoro, 09/08/1996,
n.7383).
Come è evidente dalla lettura della massima sopra riportata,
ove il giudice del merito intenda discostarsi dalle indicazioni del contratto
collettivo, ha l'onere di fornire opportuna motivazione, mentre costituisce
specifico onere del datore di lavoro quello di indicare gli elementi dai quali
risulti la inadeguatezza, in eccesso, delle retribuzioni contrattualmente
previste in considerazione di specifiche situazioni locali o della qualità
della prestazione offerta dal lavoratore. (ex
plurimis Corte di Cassazione Sezione civile, lavoro , 4 dicembre 2013, n.
27138).
7.
Conclusioni
Come è agevole rilevare dai primi paragrafi del presente
studio, il ruolo dell’autorità marittima chiamata a ricevere le convenzioni di
arruolamento, stipulate in base all’accordo sindacale più volte citato, va limitato
ad un controllo sulla regolarità formale degli atti presentati ed alle
altre incombenze previste dal codice della navigazione e dal relativo
regolamento. Essa non può entrare nel merito dell’accordo sindacale,
considerato che “Gli interessi che presidiano alla contrattazione collettiva,
alla sua validità ed alla sua "forza", sono non solo particolari, e
cioè del singolo lavoratore (evitandogli la concorrenza all'interno della categoria
professionale), e del datore di lavoro (consentendogli la organizzazione e la programmazione
dell'attività imprenditoriale), ma anche più generali, vale a dire del
sindacato (che in essa vede espressa la sua rappresentatività) o delle organizzazioni
datoriali (che hanno riguardo a situazioni generali di mercato, per settore,
anche con riferimento alla concorrenza internazionale), e, infine, della stessa
comunità per la quale la presenza sindacale è presidio non secondario della
libertà democratica. Proprio ciò vale a spiegare la tendenza espansiva della validità
erga omnes dei contratti collettivi, della quale la giurisprudenza è stata
interprete.
È intuitivo, pertanto, che nella contrattazione collettiva
confluiscono fattori di grande rilevanza per ognuna delle parti contraenti, e
che ognuna può persino avere interesse a non rendere nota; la dinamica
contrattuale, complessa, sottoposta talora anche a lacerazioni, ben difficilmente
è ricostruibile a posteriori, per così dire "in vitro", in un
giudizio di razionalità, per il quale, a ben vedere, sono solo parzialmente
presenti gli elementi di conoscenza.
A ciò si aggiunga che la trattativa per un contratto
collettivo ha una sua "globalità", di guisa che si procede per
successive concessioni per giungere ad un punto di incontro; ed ogni parte
acconsente a determinate clausole, retributive o di inquadramento, anche svantaggiose,
che considera meno importanti dal proprio punto di vista, pur di ottenere
l'accordo su altre clausole alle quali assegna prevalente significato:
irrazionale sarebbe isolare una singola clausola e valutarla indipendentemente
da un contesto della trattativa assai più ampio.”[20]
Anche perché, come si è dimostrato, entrare nel merito delle
questioni giuridiche affrontate, significa entrare in un campo minato dove lo
stesso Giudice è costretto a muoversi con fatica.
Note
[1]
L’Autorità Nazionale Anticorruzione , con parere AG 43/2010 del 27 novembre
2011, ha ritenuto compatibili gli artt. 16
e 17 del R.D. n.2440/1923 con l’art. 11,
comma 13, del d.lgs. n. 163/2006 , escludendone l’abrogazione tacita .
[2]
La speciale disciplina del codice
della navigazione che prevede la forma pubblica per la stipula del contratto d’arruolamento ha radici storiche, in quanto, con tale
formalità si intendevano vietare antiche pratiche diffuse nella marineria
mercantile e militare, rassomiglianti più` al rapimento o alla riduzione in
temporanea schiavitù.
(Pietro Ichino, “Soggetti e
oggetto, sicurezza del lavoro, retribuzione, qualità, luogo e tempo della
prestazione” in “Il contratto di lavoro-Vol. II”, cap. VIII paragrafo 197, http://archivio.pietroichino.it)
[3] In
dottrina c’è divergenza di vedute sul
significato da attribuire alla prevista partecipazione della pubblica autorità
alla stipulazione del contratto di arruolamento. Secondo alcuni, si tratterebbe
di un intervento con semplice funzione probatoria e documentale [Torrente,
Arruolamento (contratto di) ED, III, 83]; secondo altri, invece, il ruolo
spettante all’autorità sarebbe ben più ampio e consisterebbe nel verificare la
sussistenza di tutte le condizioni indispensabili per l’instaurazione di un
valido rapporto di arruolamento, con
riferimento sia ai requisiti che il lavoratore arruolando deve possedere, sia
al contenuto del regolamento contrattuale (Gaeta, Forma e contenuto del
contratto di arruolamento, RDN, 1971, I, 5). Biagio Grasso, Codice della
Navigazione (un commento a cura di), UTET, Torino, 1997.
[4] “Il
notaro non può ricevere o autenticare atti: 1) se essi sono espressamente
proibiti dalla legge, o manifestamente
contrari al buon costume o all’ordine pubblico;…”
[5]
Nella relazione del Guardasigilli alla Camera dei Deputati del 30 maggio 1912,
si esprime il timore di lasciare “adito al capriccio del notaro, lasciandolo
arbitro di stipulare un atto di cui fosse richiesto”, e si afferma di avere
ovviato a ciò rendendo il rifiuto legale “soltanto se l’atto fosse
espressamente proibito dalla legge o manifestamente contrario al buon costume o
all’ordine pubblico”. La relazione del Guardasigilli alla precedente legge 25
luglio 1875 n. 2786, il cui art. 24 era di tenore identico all’attuale art. 28
n. 1, recita “poiché non sempre è facile il giudicare se una convenzione sia o
no contraria al buon costume, e specialmente se sia o no contraria alla legge,
l’articolo in esame, onde, per quanto sia possibile, non addurre troppe gravi
responsabilità’ sul notaro, ha dichiarato che egli deve ricusare l’atto
soltanto allorché è’ espressamente proibito dalla legge o manifestamente
contrario al buon costume”. (PETRELLI G., Art. 28 della legge notarile -
Espresso divieto di legge e orientamenti giurisprudenziali non consolidati
(Nota a T. Verbania, 21 aprile 1997 e A. Torino, 17 luglio 1997). Riv. not.,
1997, 1228.)
[6]
Cass. 13 ottobre 2011, n. 21202
[7]
Enrica Minale Costa “Lavoro nella navigazione” in “Digesto”, Discipline Privatistiche-Sezione
Commerciale, Utet, Milano, 1992.
L’autrice si riporta ad un’opera risalente agli anni ’60, indicata in apposita nota bibliografica che si ritiene
utile trascrivere: V. Rudan, Il contratto di tirocinio, Milano
1966, 103 ss.. nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato la disciplina
dello speciale contratto di tirocinio trova la sua fonte nella legge 2 aprile
1968, n. 424, che ha modificato e integrato la legge 19 gennaio 1955, n. 25.
[8]
La Corte Costituzionale fu
chiamata a pronunciarsi sull’eccezione di legittimità costituzionale degli
artt. 2086, 2087, 2095, 2099, 2103 del codice civile, nella parte in cui essi
avrebbero consentito all'imprenditore di attribuire ai dipendenti, a parità di
mansioni, diversi livelli o categorie generali di inquadramento retributivo, comprimendo, in tal modo, il diritto dei lavoratori al rispetto della
loro dignità umana, in spregio dei limiti che l’art. 41 della Costituzione
impone alla libertà di iniziativa economica. La Corte ritenne non fondata la
questione di legittimità costituzionale
[9]
Cassazione Civile SS.UU. 29 maggio 1993, n.6030
[10] Cassazione
civile sezioni unite 17 maggio 1996 n.
4570
[11] Cassazione
civile , sez. lav., 19 luglio 2007, n. 16015
[12]
Lucia Tria “Il divieto di discriminazione tra Corte di Strasburgo e Corti
interne” in
http://www.europeanrights.eu/public/commenti/LUCIA_TRIA_DIVIETO_di_DISCRIMINAZIONE_2014.pdf
[13]
L’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea firmata
a Nizza il 7 dicembre del 2000 vieta infatti “qualsiasi forma di
discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della
pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la
religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi
altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la
nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”.
[14]
Cfr. il paragrafo 4 della Linea guida B.2.2.2-Calcolo e pagamento:
“National laws and regulations adopted
after consulting the representative shipowners’ and seafarers ’organizations or, as appropriate
collective agreements should take into account the following principles:
a) equal remurenation for work of equal value should apply to all seafarers employed on the
same ship without discrimination based
upon race, colour, sex, religion, political opinion, national extraction or
social origin;”
[15]
M. Ciaccioni, in Consulenza-online Buffetti, Roma, 17/03/2014
[16]
Cfr; Cass. civ. Sez. lavoro, 27 agosto 2015, n. 17248; Cass. 15 marzo 2010, n.
6204; Cass. 6 febbraio 2008, n.2781; Cass. civ., sez. unite, 1° aprile 1993,
n.3888.
[17]
Cfr. “Dizionario Enciclopedico Italiano “ Istituto della Enciclopedia Italiana
fondata da Giovanni Treccani, Roma, 1970
[18]
Pietro Ichino, “ La giusta retribuzione” in “Il contratto di lavoro-Vol. II”,
cap. X paragrafo 236, http://archivio.pietroichino.it
[19] Ex plurimis Corte
di Cassazione Sezione civile, lavoro , 4 dicembre 2013, n. 27138.