La stazione Bayard, dal nome del costruttore della tratta, fu edificata nell'antica via detta «dei fossi» appena fuori le mura aragonesi, tra la Porta del Carmine e la Porta Nolana, ed era costituita da un'ampia sala d'aspetto per i passeggeri, di uffici, magazzini, rimesse per le vetture e le
macchine e di un'attrezzata officina di riparazione. La linea attraversava le paludi napoletane e la Real strada delle Calabrie giungendo nei pressi della spiaggia di Portici, al Granatello.
Oggi solo resti anonimi, insignificanti, celati da putrelle e graticci; un rudere screpolato, abbandonato su un lato di Corso Garibaldi, tra la Circumvesuviana e la palazzina della II Municipalità Mercato-Pendino.
L’incontro organizzato all’Istituto Boccioni-Palizzi da Luigi Rispoli, Presidente del Consiglio Provinciale di Napoli, da Umberto Franzese, coordinatore dell’AIGE, e Laura Bufano ha acceso ancora una volta i riflettori su queste memorie perdute, circondate dall’indifferenza e dal degrado, per sostenerne il restauro e la valorizzazione.
“La questione Bayard” rimane irrisolta e scivola entro un progetto più generale di riqualificazione della zona circostante e del Centro Storico.I fondi, circa 700mila euro stanziati dal Ministero per i Beni culturali e almeno 500mila dalla Provincia di Napoli, sono andati persi perché non è stato ultimato il processo di utilizzazione e così, il progetto di recupero di Aldo Loris Rossi, il piano per farne un Museo delle Comunicazioni Viarie sono rimasti senza un programma esecutivo.
Eppure proprio l’utilizzo delle risorse europee troverebbe un’ulteriore giustificazione dal significato comunitario che ebbe la costruzione della tratta. Un primato tecnologico e culturale della Napoli ottocentesca, capitale europea di un Regno, celebrato dalla stampa locale e di tutta Europa; due locomotive inglesi, progetto e capitali francesi, manodopera partenopea. Una cooperazione internazionale che mise insieme risorse differenti per realizzare una tappa epocale nella storia delle ferrovie italiane e non solo.
Ad eccezione di un certo appoggio da parte del ministro dell’interno Nicola Santangelo e dell’entusiasmo del sovrano borbonico, l’opera non ebbe aiuti statali, ma fu frutto dell’intraprendenza di quattro imprenditori francesi, i tre fratelli Bayard Armando Giuseppe, direttamente impegnato, Ferdinando Giovanni e Carlo, nonché dell’ing. Fortunato De Vergés, i quali, all’inizio del 1836 presentarono al Re il progetto. Ottenuta l’approvazione, nonostante le numerose riserve, si adoprarono per racimolare sul mercato francese gli ingenti capitali necessari e l’anno successivo, costituirono a Parigi la Società in accomandita per la strada ferrata Napoli-Nocera e diramazioni, con un capitale di oltre due milioni e mezzo di ducati.
Le locomotive, Vesuvio e Bayard, giunsero dall'Inghilterra ed erano costruite sul modello delle prime progettate da George e Robert Stephenson. Il resto dei materiali rotabili, invece, fu realizzato in Italia; le undici carrozze con le quali fu inaugurato l'esercizio furono prodotte direttamente a Napoli nello stabilimento di San Giovanni a Teduccio.
Il successo del percorso e il forte incremento delle ferrovie fecero nascere nel 1840, appena un anno dopo l’inaugurazione del 3 ottobre 1839, lo stabilimento di Pietrarsa che raggiunse gli oltre 13.560 mq. Nei capannoni gli operai si specializzarono nel montaggio delle locomotive le cui parti provenivano dall'estero, tuttavia, ben presto esse furono esportate anche in altri stati italiani. Il Piemonte, ad esempio, acquistò nel 1847 sette locomotive napoletane.
La velocità di percorrenza, la frequenza dei treni, i prezzi contenuti per la terza classe, l’interesse turistico per alcuni luoghi attraversati o avvicinati, determinarono un gran numero di viaggiatori, pari ad oltre un milione l’anno.
Fiorella Franchini
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